Riparare che cosa e verso chi?
In realtà questo modo di fare giustizia è entrato a pieno titolo nel nostro ordinamento. A livello sovranazionale è esplicitato nelle Raccomandazioni del Consiglio d’Europa e nei Principi base delle Nazioni Unite.
Esso si contrappone al modello di giustizia retributiva che punta il fuoco sull’autore dell’illecito.
E’ un procedimento in cui la vittima e il colpevole partecipano attivamente alla soluzione delle difficoltà derivanti dal reato e richiede il libero consenso delle parti, interessate a trovare una via di uscita all’empasse in cui si sono bloccate.
Riparare non è sapere che chi ci ha fatto del male ha avuto ciò che si e’ meritato. La punizione non basta perché la ferita che l’illecito ha inferto alla comunità in termini di fiducia e di affidabilità possa essere rimarginata. Il sentimento di avere ricevuto un torto ha bisogno di ben altro. Ha bisogno di risposte che la legge il più delle volte non può dare, perché essa è impegnata su un altro fronte.
Il fronte che pone fine alla vendetta privata assumendo su di sé l’onere di decidere e di pronunciare la parola definitiva sul conflitto.
Per dare al conflitto il suo volto umano occorre ridare senso al male che si e’ fatto, dare all’autore la possibilità di riconoscere la propria responsabilità e di trovare parole per scusarsi della sofferenza che ha inflitto a un altro. “Altro” che non è senza volto, ma è qualcuno cui è possibile rispondere e spiegare cosa ha portato a compiere quel gesto. Ciascuno ha la propria storia da raccontare, la propria verità. L’ascolto dell’altro, è ascolto di sé che parla all’altro. Fare giustizia non è soltanto punire chi ha commesso un crimine, ma è dare anche a chi ha violato le regole della convivenza, la possibilità di restituire, in parte e simbolicamente, ciò che ha tolto alla persona a cui lo ha tolto.
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