venerdì 8 giugno 2012

Che cos'è la sofferenza?

La sofferenza è universale, ma può avere colori, forme, accenti, intensità differenti per ogni persona. E’ uno stato d’animo che accomuna tutti gli esseri, ma li rende unici. La sofferenza è comunicabile, esistono
parametri per misurarla?

No, essa alberga nel mistero umano, ma la si può sussurrare, raccontare, gridare, negare, reprimere, aggirare, essa è comunque il perno attorno al quale ruotano le nostre esistenze, il lievito che ci rende  uomini e donne consapevoli dinnanzi alla nostra storia.

Articolo di Cinzia pubblicato su Realtà nascoste, rivista mensile di San Vittore, direttore responsabile Simona Salta




Che cos’è per me la sofferenza?

…Purtroppo non riesco a trovare risposte “tecniche” per descrivere la sofferenza, non sono un’educatrice, né una psicologa, né tantomeno una persona che possiede strumenti per indagare l’animo umano. Sono solo una donna che da anni pensa, forse sbagliando, che la sofferenza in un luogo come il carcere, ma in generale nella vita, sia un passaggio, un momento che consente dolorosamente di crescere, di interrogarsi, di trovare dentro di sé delle risposte, se solo si riesce a ascoltarle e a interpretarle. Bisogna capirle e non reprimerle o sedarle. Solo così, si può evitare di arrivare al naufragio della mente, facendo diventare queste risposte un mezzo che può rafforzare e aiutare a ritrovare se stessi.
Mi viene in mente un aneddoto: alcuni antropologi americani hanno studiato una strana forma di malattia che si verificava frequentemente tra i tagliatori di canna da zucchero sudamericani. Questi, quando erano sfiniti dal lavoro, crollavano a terra in preda a forme convulsive che nessuno era in grado di diagnosticare perché non appartenevano a patologie conosciute. I medici non avevano risposte, ma gli antropologi hanno capito che questa strana malattia, il “nervios” era l’ultima arma dei deboli. Quando non c’erano più parole per esprimere la rabbia e la sofferenza e per ribellarsi allo sfruttamento, la malattia diventava una forma di resistenza e di lotta silenziosa. Non era un male che si potesse guarire con i farmaci, perché era il linguaggio di chi non aveva altre possibilità di parola.
La sofferenza è un linguaggio che bisogna sapere ascoltare, trovando in se stessi, prima che in qualunque supporto esterno, le risposte. Il carcere costringe tutti a cercare nuove forme di vita e di sopravvivenza, in un universo limitato, partendo da due considerazioni: la prima è che si è vivi e anche la sofferenza è un’espressione di vitalità, di non rassegnazione, di ricerca di se stessi e di un percorso difficile, faticoso, ma non esente di prospettive. La seconda considerazione è più poetica, è solo un’immagine. Picasso ha dipinto tante cose..qui ho solo un ritaglio, un particolare: la Palomita, la colomba della pace e io, attraverso quel particolare, vivo tutto il resto.

La mia “palomita” sono gli affetti, le relazioni, le cose che anche in carcere si possono fare. Sono solo una simulazione della vita reale, ma sono vita, affetti, progetti e speranze. Peccato che tutto questo l’ho imparato da pochi anni..e in un luogo dove il tempo sembra perso! Chi ha detto che la sofferenza è una sconfitta personale? No..la sofferenza ti aiuta a prenderti una rivincita con te stessa, con gli altri, ma soprattutto con la tua vita.

Cinzia

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