Incontro del 15 aprile 2013 Milano Casa circondariale San Vittore.
Il tepore della primavera alita finalmente sulla città in pieno risveglio, la luce si è fatta più morbida e le panchine dello spiazzo verde davanti San Vittore si sono ripopolate di parenti, visitatori, avvocati, gente che legge o si gode l’ombra.. Azalen e Simone al bar attendono Oreste Pivetta, sono puntuali. Un caffè al volo, poi insieme varcano il portone. Al sesto l’ispettore fa sgombrare l’aula cella, ancora occupata dal corso Cuminetti, mentre i partecipanti arrivano a piccoli gruppi. Nell’attesa, Animabella, preso possesso della chitarra, intona una canzone mesta. Continua a strimpellare qualche nota mentre Iena – su invito di Simone - legge il resoconto. Azalen, un po’ impacciata, presenta Oreste Pivetta a due nuovi partecipanti, chiede se le sue attività di giornalista, scrittore, consigliere dell’ordine nazionale dei giornalisti non siano pesanti da sostenere tutte insieme. Oreste Pivetta risponde con un aneddoto sul suo amico Renzo Piano che al telefono gli annunciava sempre di essere in partenza per la Paupasia, e di dovere proseguire per Parigi, New York e altri posti esotici e non. Al che, un giorno, Pivetta gli chiede: "Come fai a resistere, sempre in viaggio.." e l’altro gli risponde: “Meglio che lavorare in miniera”. Pivetta sorride perché anche per lui il giornalismo è “meglio che lavorare in miniera”, poi si diffonde a parlare dei compiti dell’Ordine di cui fa parte. Simone chiede “Cosa ne pensi della proposta di abolire gli ordini professionali?” Pivetta risponde che dipende da come operano, se sono delle gabbie che precludono l’accesso o organismi che proteggono e rappresentano una doppia garanzia. Accenna alla Carta di Treviso e alla Carta di Milano. Quest’ultima riguarda i diritti del detenuto, in primo luogo il diritto all’oblio che non deve però scontrarsi con il diritto di cronaca.
Oreste Pivetta parla della Carta di Milano e del diritto all'oblio.
Oreste Pivetta, Azalen Tomaselli, e Simon Pietro De Domenico con i detenuti.
Iena replica che c’è dell’ambiguità e discrezionalità nel trattare le persone. L'ospite risponde che non si tratta di una legge, ma di un codice deontologico basato sulla cultura, sull’intelligenza, sulla sensibilità di chi lo applica, poi ammette che il giudizio sulla colpa varia e è variato nel corso dei tempi. Cita il caso del giornalista che ha pubblicato la notizia di Vallanzasca avendolo trovato a lavorare in un bar (articolo 21) e è stato sanzionato perché la notizia non aveva alcun rilievo sociale. Simone replica: “Chi ha una funzione pubblica non ha diritto all’oblio, deve rinunciare ai diritti che sono prerogative del comune cittadino”. Iena interviene per rilevare: "chi legge di Vallanzasca che ha 27 ergastoli, non si interessa al suo recupero sociale ma vuole leggere la notizia che ha trovato un portafoglio per terra e che se lo è intascato, è stato beccato da un agente e lo ha restituito, per scrivere: visto la nota persona se lo infilava in tasca". Oreste risponde: "io come giornalista avrei chiesto: Renato hai voglia di raccontare la tua storia? Una storia può avere riflessi importanti e può servire a smantellare certi pregiudizi nei confronti di determinati reati".
Poi prosegue: "Nel mio lavoro mi pongo l’obiettivo che quello che scrivo abbia un peso sociale. Ad esempio, San Vittore è un carcere dell’800, è impensabile che funzioni come istituto penitenziario, oggi potrebbe esistere come museo, per lo meno nell’ala più antica. Dobbiamo superare lo stigma, il carcerato come il malato mentale non deve per forza portarsi una croce addosso per tutta la vita". Accenna alla responsabilità dei media e al silenzio che avvolge il mondo carcerario, occorre che la gente si costruisca un’opinione diretta sulla realtà, dobbiamo costruire dei ponti.
Guido afferma che la posizione del giornalista è dalla parte dell’opinione pubblica giudicante, c’è la volontà di dar sfogo all’opinione perversa e sbattere in prima pagina l’autore di un reato per dare risonanza alla storia truculenta, macabra, al fatto efferato. Oreste ammette che la responsabilità è individuale ma rileva che c’è un sistema economico culturale di classe in cui lo stesso giornalista è vittima di quello che viene richiesto. Ribadendo il suo passato di sessantottino, denuncia la deriva culturale degli ultimi vent’anni e il prevalere dei valori consumistici, "prima, nonostante il fascismo c’era una coscienza sociale e un impegno politico", afferma; "negli anni ‘80 si è passati alla Milano da bere, alla voglia di far parte di una minoranza ricca o per lo meno di stare vicino e di legarsi al carro di chi la ricchezza ce l’ha e a te dà le pillole". Il giornalista racconta di essere nato in una famiglia di contadini poveri del Friuli emigrati a Milano, la tavola era semplice, si andava avanti a polenta e insalata, quando suo nonno gli raccontava che ci si metteva tutti attorno e si appendeva al centro un’aringa per fregarvi sopra la polenta credeva che fosse un’esagerazione. Ma poi ha visto L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, dove si vede la scena di cui parlava suo nonno.
Poi parla della sua volontà di studiare per tentare per quella via di fare un salto perché afferma “la parola è uno strumento per essere liberi e reagire con propria testa". Citando Walter Benjamin, sostiene che è importante dare la parola a chi non ce l’ha. E’ quello che lo ha spinto a scrivere Il venditore di elefanti, recensito da Giovanni Giudici, la storia di un vu cumprà, agli inizi dell’immigrazione. Oreste Pivetta ha voluto dare concretezza a una condizione che in quel tempo si conosceva poco.
Azalen richiamando il diritto all’oblio chiede ai partecipanti se provano vergogna per la carcerazione. Carlo, un nuovo partecipante, confida : "mi sento estraneo, lontanissimo da quello che è stato detto di me, il marchio me lo sento addosso, perché io stesso vivevo con pregiudizio la galera". Guido, a sua volta, commenta che le persone fanno dei cluster e non riescono a associare una persona e la galera. Ma Iena è una voce dissonante nel gruppo e replica che uscirà fiero di se stesso perché ha pagato per la sua colpa, fiero di essere stato in galera e di avere capito di avere commesso un errore, “Se non lo commetto un’altra volta non è perché ho paura di finire qui dentro, ma perché ho capito. L’intelligenza permette di superare l’ etichetta. La rifiuto". Mentre Guido insiste sulla valenza negativa della parola “pregiudicato” riferita a chi ha avuto una condanna definitiva, Iena ripete: “rimango ingiudicato, la legge dice che il reato è cancellato, sono fiero non del reato commesso, ma del percorso. Non guardo al passato, ho avuto la fortuna di vivere questa esperienza. La si può vivere in modo umano”.
Oreste Pivetta si allaccia a queste parole e continua: “Siamo tutti indistintamente per manifestare quello che siamo capaci di fare al di fuori di qui, poi si chiede, come si fa a curare un reo dentro una cella? La libertà è terapeutica e aggiungo anche il lavoro su se stessi e il progetto”. Conclude ricordando don Lorenzo Milani, figlio di una ricca famiglia fiorentina che aveva scelto di fare il sacerdote in un piccolissimo borgo di contadini, a Barbiana. Don Milani aprì una scuola per insegnare a leggere e a scrivere ai figli di questi poveri contadini ignoranti, vittime di una società divisa in classi e ha riportato questa sua esperienza in un libro, intitolato Lettera a una professoressa. Un giorno Adele Grassi che insegnava nella sua scuola e era una fervente cattolica andò dal sacerdote per lamentarsi: “Don Milani non c’è mai tempo per pregare!” Il prete le rispose: "Operare è meglio che pregare".
Pivetta esorta a agire senza aspettare i grandi mutamenti epocali, bisogna procedere a piccoli passi, poi annota che quando si parla della nostra storia si fanno i nome di Calvino e di Pasolini, sottacendo figure di intellettuali come Basaglia e Don Milani che hanno lasciato un solco profondo nella nostra storia civile.
Prima di congedarsi, verga una dedica sul libro Franco Basaglia Il dottore dei matti per destinarlo alla biblioteca e consegna a Azalen il dvd di un filmato realizzato per la Rai sulla vita dello psichiatra che ha portato alla chiusura dei manicomi. A collegiale richiesta, Animabella si esibisce in una canzone di Battisti che anche Oreste canta insieme a qualche altro partecipante, salutato da un gioioso applauso. I saluti e i ringraziamenti per l’ospite concludono l’incontro poi il gruppo si scioglie sciamando nel largo corridoio illuminato dal sole primaverile.
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