martedì 16 aprile 2013

Oreste Pivetta racconta Franco Basaglia

Incontro del 8 aprile 2013 Milano Casa circondariale San Vittore. 
Oreste Pivetta presenta il libro Franco Basaglia il dottore dei matti 
Oreste Pivetta, Azalen Tomaselli, Simon Pietro De Domenico con i detenuti.
Milano è sferzata da una pioggia insistente, il cielo è una cupa distesa grigia che si confonde con l’asfalto della strada battuta dal traffico. Oreste Pivetta aspetta davanti il bar di via degli Olivetani. E’ senza ombrello. Ha dato un solo elemento segnaletico per farsi riconoscere: "sono senza capelli", ma è facile individuarlo, nonostante si ripari con il berretto di lana nell’andirivieni dell’ora di punta, per l’aria di quello che non ha fretta e ha il gusto di osservare ciò che gli gira intorno. Insieme il gruppo varca il portone di San Vittore. Al sesto qualcuno è andato all’aria, nonostante la pioggia, qualcuno prende una pausa dal corso precedente fumando nel corridoio. Animabella si appropria della chitarra nell’attesa e strappa qualche nota. E’ Zero a rivolgere la prima domanda all’ospite: “Qual è il lavoro della sua vita e la sua passione?”. L’ospite spennella con garbo la sua biografia con pochi colpi. “Sono nato da una famiglia povera del Friuli, mio padre era un falegname, aveva come titolo di studio la terza elementare ma aveva l’ambizione di farmi studiare. Uno dei miei primi lavori è stato quello di giornalista e ho cominciato da abusivo, poi sono andato all’università e ho iniziato a lavorare in un’agenzia di stampa sportiva. Scrivevo i pezzi per i giornali di provincia, con me c’era Maurizio Cucchi (autore di Il disperso) che è diventato un poeta di valore della scuola milanese". Snocciola altri nomi Pontiggia, Neri, Sereni e precisa: Milano è stata la culla di molti poeti. Poi Oreste Pivetta parla con orgoglio del suo giornale l’Unità, in cui ha lavorato per 40 anni, a partire dai tempi di Enrico Berlinguer. Traccia per l’uditorio una breve storia dell’organo del PCI, fondato nel 1924 da Antonio Gramsci e pubblicato clandestinamente durante il Fascismo, molti giornalisti finirono a Auschwitz, dice. Durante gli scioperi del ’43 – nati dalla fame - in uno dei reparti della Fiat Mirafiori a Torino, L’Unità uscì invitando gli operai a scioperare e accelerò la caduta del regime. Dopo questa breve carrellata sui suoi esordi nel giornalismo. Oreste Pivetta passa a parlare delle ragioni che lo hanno spinto a scrivere una biografia su Franco Basaglia: Franco Basaglia Il dottore dei matti, pubblicata da Dalai editore nella collana I Saggi



Ho avuto la fortuna di vivere il ventennio che segna la parabola di uno degli esponenti più di spicco della nostra Psichiatria”, precisa. Chi è Franco Basaglia? Era nato da una famiglia molto ricca perché il padre era un esattore delle tasse e possedeva molti terreni. Franco Basaglia si iscrive in Medicina a Padova quando è rettore dell’università un emerito latinista, Concetto Marchesi che apre l’anno accademico, invitando gli studenti alla rivolta contro il Fascismo e contro l’oppressione tedesca. Basaglia si dà all’attività clandestina e, a seguito di una spiata, va in galera a Venezia, liberato poi nel ’45, subisce tutte le sevizie riservate ai detenuti politici. Nel Dopoguerra frequenta la clinica psichiatrica a Padova, in un contesto in cui la psichiatria non curava, ma segregava e tendeva a classificare il malato. 

Animabella commenta: “Un foglio bianco”, a intendere la totale impotenza del malato mentale di fronte all’istituzione manicomiale. Sì, conferma Oreste Pivetta, il malato era un "fine pena mai", entrava con certe diagnosi ma non poteva prevedere il momento delle dimissioni a differenza del condannato che conosce la scadenza. Il manicomio come istituzione evoca il carcere, per le sbarre, e la totale dipendenza dall’infermiere, dal direttore che decide per il malato e ha un potere assoluto sulla sua vita. 

Poi Oreste Pivetta descrive alcune pratiche usate al tempo come il letto di contenzione o l’usanza di legare un lenzuolo bagnato attorno alla testa “la strozzina", la gabbia, il letto con le sponde. Il malato era privato dell’identità, rapato a zero, gli venivano tolti gli abiti. Animabella chiede fino a quando sono rimasti aperti questi manicomi. Fino agli anni ’80, risponde l’ospite. Poi il racconto prosegue illuminando la presa di coscienza del giovane Franco Basaglia che si chiede: Cosa faccio con gli strumenti della mia scienza? E inizia a passare al vaglio critico tutto un sistema basato sul controllo e sullo stigma della diversità. 

Fa i primi gesti rivoluzionari: si toglie il camice bianco per essere vicino ai malati, restituisce loro i segnali di un’identità: il comodino, l’armadietto, contesta con un nuovo metodo di cura le istituzioni totali che avevano solo la funzione di eliminare ogni forma di contagio con la società civile, facendo sparire tutti quelli che per varie ragioni ne erano stati messi ai margini. Oreste Pivetta cita alcuni casi eclatanti venuti alla luce della cronaca giudiziaria (suor Diletta, Grottaferrata etc) Poi accenna alla lunga marcia compiuta dal dottore dei matti, scandita da tappe importanti: Gorizia, Parma, Trieste, esauritasi negli anni ’80 quando il grande rivoluzionario muore per un cancro al cervello, durante un congresso a Berlino. 

Sullo sfondo, i grandi mutamenti storici, le lotte operaie e studentesche, i governi di centrosinistra, le bombe stragiste, il terrorismo, che esprimono una spinta riformista e una voglia di sbarazzarsi di tanti fantasmi e lasciti del passato. Un modello di concretezza, di fatti non parole quello di Basaglia che smantella le istituzioni totali, agendo da dentro, con azioni che hanno il potere di farle implodere: abbattere i muri, fare circolare i malati, assicurare un lavoro retribuito, restituire un’identità a uomini senza volto, identificati con una divisa che li differenzia dai cosiddetti normali. Un’intensa e infaticabile opera che porta alla legge 180

Oreste Pivetta racconta l’episodio simbolico di Marco cavallo, per dimostrare la sua tesi: Basaglia fa la rivoluzione agendo da vero riformatore. Umanizzare l’ospedale significa anche prendersi cura di un cavallo e salvarlo dal macello dopo una vita trascorsa da bestia che trascina la carretta e trasporta la biancheria sporca. E’ salvato e affidato a un farmacista, che se lo porta in un maneggio dove passerà gli ultimi giorni della vecchiaia. Ma la nostalgia di questo amico rimane e con un gruppo di artisti il reparto è trasformato in un atelier dove si decide di costruire una scultura, di circa tre metri, in cartapesta e legno, tinta di azzurro per renderlo sempre presente. In un manifesto si legge “Marco cavallo lotta per tutti gli esclusi” è il simbolo di sofferenza umile e inascoltata. Poi lo si porta in un viaggio inaugurale organizzando una sfilata sotto gli occhi stupiti della gente. 

Oreste Pivetta passa a parlare della contiguità tra carcere e manicomio per i detenuti che resistono alla polizia, e parla di Tommasini, prima operaio poi assessore alla Sanità che gli ha raccontato il caso di Paolo Moreschi, un manifestante che aveva ferito con una spranga un commissario di polizia. Questi a Parma nel ‘52 aveva ordinato di caricare il corteo e negli scontri erano morte due persone. La gente aveva reagito e Moreschi era finito in manicomio, trattato come un malato mentale mentre era uno che non sapeva accettare supinamente l’ingiustizia. L’esempio fatto da Oreste Pivetta stimola il parallelismo tra manicomio e carcere. 

Simone osserva che ci sono categorie di persone per cui si ha pregiudizio perché non possono essere integrate. Qualcuno dei partecipanti sostiene che la società rimuove il problema e la pericolosità sociale è spesso un pretesto per scopare sotto il tappeto l’elemento che si è posto fuori da certe regole facendolo sparire per eliminare l’inquietudine sociale. Guido parla della funzione dissuasiva della pena, mentre qualcun altro sottolinea come anche i reati seguano determinate tendenze, e si sia avuto un inasprimento di pene per i reati a sfondo sessuale rispetto a prima, sono diventati più gravi dell’omicidio perché si fa un processo alle intenzioni. “Ti faccio sparire dalla mia vista, perché mi fai pensare che potrei farlo anch’io” viene osservato , rilevando l’aspetto difensivo della reazione al crimine, e la sua capacità di risvegliare paure e moti oscuri in chi non lo ha commesso. 

Un altro detenuto denuncia la mancanza da parte dell’istituzione carceraria di opportunità concrete di cura, “di portare l’armonia nel caos che ha provocato”. Ti mettono il bollino AS e sei marchiato, ma non c’è nessuna azione per aiutare, per promuovere un cambiamento. A conclusione dell’incontro, Oreste Pivetta non avalla del tutto il parallelismo carcere manicomio, sottolineando che il malato mentale è innocente e subisce un trattamento ingiusto, anche se le carceri devono garantire un trattamento non disumanizzante. Cita un passaggio della intervista di Sergio Zavoli a Franco Basaglia: 
Qualsiasi cura non ha possibilità di successo, se manca una situazione di libera comunicazione tra medico e malato..(…) Avvicinarsi alla persona sofferente credo sia il compito principale che trascende il ruolo semplice e banale di un medico.
Che si possano usare gli stessi termini per il rapporto tra l’uomo e la legge, tra il condannato e il giudice? Ce lo chiediamo. I saluti e i ringraziamenti all’ospite concludono l’incontro.

* I nomi dei detenuti sono di fantasia

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