In carcere si discute di perdono responsabile
Azalen Tomaselli con i detenuti.
Il cielo è sereno, l’aria ormai
calda della primavera inoltrata. Azalen arriva con la chitarra e
attende che l’aula si svuoti e i partecipanti si siedano a giro.
Oggi l’ospite protagonista è un libro. Ma si procede come al
solito. Zero insieme a un nuovo partecipante leggono il resoconto;
poi è la volta di Iena che porta al gruppo le impressioni di Sonja
Radaelli (vedi QUI) e di Antonella Cavallo (vedi QUI) sull’incontro svolto il 7 giugno.
Oggi di scena è un piccolo volume: Il perdono responsabile, Edizione Ponte delle Grazie. La copertina fiammeggiante reca la domanda: Si può educare al bene attraverso il male? E in calce l’asserzione perentoria: Il carcere non serve a nulla. Parole che pesano, e che pesano di più se a scriverle è un magistrato che per anni ha somministrato condanne. L’autore è infatti Gherardo Colombo, pubblico ministero presso la Procura di Milano e giudice di Cassazione, implicato in inchieste celebri (Loggia P2, delitto Ambrosoli, Mani Pulite, i processi IMI-SIR, Lodo Mondadori etc.), uomo di punta, come è noto, della magistratura milanese. Forse la chiave del libro, o almeno una delle tante, è racchiusa nelle parole del retro della copertina, in cui l’autore fa un auto da fé sull’uso della carcerazione come esclusivo strumento di esercizio della giustizia.
Oggi di scena è un piccolo volume: Il perdono responsabile, Edizione Ponte delle Grazie. La copertina fiammeggiante reca la domanda: Si può educare al bene attraverso il male? E in calce l’asserzione perentoria: Il carcere non serve a nulla. Parole che pesano, e che pesano di più se a scriverle è un magistrato che per anni ha somministrato condanne. L’autore è infatti Gherardo Colombo, pubblico ministero presso la Procura di Milano e giudice di Cassazione, implicato in inchieste celebri (Loggia P2, delitto Ambrosoli, Mani Pulite, i processi IMI-SIR, Lodo Mondadori etc.), uomo di punta, come è noto, della magistratura milanese. Forse la chiave del libro, o almeno una delle tante, è racchiusa nelle parole del retro della copertina, in cui l’autore fa un auto da fé sull’uso della carcerazione come esclusivo strumento di esercizio della giustizia.
Attraverso un dialogo serrato con se stesso e con la
realtà, il magistrato si interroga sugli effetti del carcere e sulla
possibilità di percorrere altre vie per stipulare un patto di
reciproca responsabilità tra la collettività e coloro che sono
incappati nelle maglie della legge. Azalen inizia
con il dire che il concetto di giustizia parte da una visione
religiosa, come il concetto di perdono, suo corollario, collegato al
peccato e alla violazione di un rapporto privato tra le persone. Ma
il libro vuole occuparsi di un altro profilo del perdono, che
scavalchi le relazioni private e riguardi la sua dimensione pubblica.
Si parte dal concetto di regole e alcuni partecipanti, sollecitati,
propongono la loro definizione: qualcosa cui attenersi per il bene
comune, qualcosa cui è obbligo sottoporsi. Qualcuno si astiene
dall’esporre la propria opinione. La regola è l’indicazione
della costanza di un fenomeno, spiega Azalen citando l’autore, e
solo per un fraintendimento è di solito scambiata con la punizione.
La pena è del tutto aleatoria rispetto alla regola. E’ questa
circostanza, e il fatto che il dovere nella nostra lingua sia usato
indifferentemente per significare l’effetto di un’imposizione o
la necessità o il bisogno perché una condizione preferibile si
avveri, a rendere proponibile il perdono, come modo alternativo (e
più efficace) di regolare i rapporti sociali.
Preso l’avvio, il
discorso si sviluppa attraverso vari filoni. Dalla legge del taglione
che portava - nelle società antiche - a limitare la vendetta entro
l’ambito della restituzione simmetrica del torto subito (il famoso
occhio per occhio), alla diversa visione della giustizia che ha la
sua origine nella Bibbia e considera da una parte la liberazione
dell’uomo senza contropartita e dall’altra la retribuzione
proporzionata del male con il male. L’uomo ha optato per la
versione della parola di Dio che reclama la punizione e non il
ricongiungimento con chi ha sbagliato. La legge e la cultura si sono
fatte interpreti di una visione retributiva della legge che prevede
l’annullamento dell’autore del torto o la sua esclusione dalla
società. Ma contro i giudici severi e irremovibili, nel tempo si
sono levate varie voci a favore di una concezione clemente che non
escluda il perdono. Tra le tante, quella di un gesuita, Eugen
Wiesnet, particolarmente impegnato nell’assistenza ai giovani
detenuti tossicodipendenti, che negli anni ’60 pubblicò: Pena
e retribuzione: la riconciliazione tradita.
Il libro è dedicato a Hans K., un diciannovenne morto suicida.
Ritornato dal carcere minorile dopo tre anni di detenzione, era stato
respinto dal suo villaggio di origine in quanto “furfante” e
“galeotto”.
Gherardo Colombo
sottolinea come il termine ebraico Tsedaqah con il quale si
esprime la giustizia salvifica di Dio, sia stato distorto in
justitia, con cui nella società occidentale si configura la
costante e immutabile volontà di attribuire a ciascuno il suo
diritto. Ora, sostiene Colombo, non si mette in discussione il
diritto della società a difendersi da ulteriori delitti, ma si
tratta di includere il perdono come categoria giuridica, in
sostituzione della semplice punizione del reato commesso.
Nella
seconda parte del libro, il magistrato passa a esaminare le ragioni
dell’inutilità di una giustizia rivolta solo a reprimere e a
punire. La prima è che essa non previene né tantomeno distoglie dal
commettere un reato chi è spinto a farlo. L’efficacia
intimidatrice della pena potrebbe valere se fosse esercitata a ogni
trasgressione, cosa che è lontanissima dalla realtà. E poi chi ha
l’esigenza impellente di soddisfare il proprio bisogno di droga o è
indotto dalla fame o subisce l’influsso di un ambiente criminale
che mette a repentaglio la propria incolumità, delinque a
prescindere da qualsiasi norma penale, anche se ha sperimentato la
sofferenza della reclusione.
Solo il perdono, rendendo reciprocamente
responsabili, sia l’autore di un reato sia chi ne è vittima e il
ricorso a sanzioni positive, può restituire dignità a chi ha
violato la legge, riducendo la reiterazione del reato.
L’autore
cita le parole di Carlo Maria Martini:
andrebbe privilegiata l’applicazione di forme sanzionatorie diverse dal carcere che in molti casi potrebbero assumere un significato costruttivo, pur restando impegnative per chi a esse viene assoggettato
Il
libro si conclude con l’appello all’esercizio di una giustizia
riparativa che proponga nuove forme per regolare i rapporti sociali.
Come è espresso nelle Raccomandazioni del Consiglio d’Europa del
1999 con l’indicazione ai diversi attori sociali di partecipare
attivamente alla soluzione delle difficoltà derivanti dal reato. O
come prevede la Risoluzione dell’ONU del 2002. Si tratta di
principi ispiratori che non hanno trovato applicazione nel nostro
codice penale, tranne alcuni casi sporadici (esistono in Italia pochi
uffici di mediazione penale), ma che segnano una nuova,
significativa, traiettoria.
Al termine dell’incontro a cui i
partecipanti hanno contribuito con i loro stimoli e con il racconto
di esperienze personali, sono le note di Animabella a concludere la
discussione, insieme ai saluti e all’impegno di ritrovarsi il
prossimo lunedì.
* I nomi dei detenuti sono di fantasia
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