Incontro del 18 ottobre 2013 Milano Casa circondariale San Vittore.
Come migliorare la convivenza in carcere? Con l'immedesimazione.
Azalen Tomaselli, Giorgio Cesati Cassin e Simon Pietro De Domenico con i detenuti.
Giornata uggiosa, con un cielo arabescato di pallide nuvole. Simone e Azalen salgono al sesto secondo, dove trovano il piccolo gruppo con Giorgio Cesati Cassin. Ha portato la seconda parte de I guardiani della sogliola. Un nuovo partecipante, presentandosi, parla dei motivi della sua carcerazione, dovuti a una lite con la sua compagna. E' Gio che, dopo un primo scambio di opinioni sul rapporto tra uomini e donne, spesso difficile, e sulla piaga della violenza contro le donne, come dato inconfutabile, torna a parlare del regime carcerario e della condizione del detenuto in attesa di processo. Gio sostiene che “bisogna imparare a scrivere” mandare “una montagna di lettere per denunciare i disagi e il malessere di chi è costretto a scontare una pena", anche se precisa “la nostra protesta è censurata”.
Un altro partecipante afferma che spesso non conosciamo i mezzi per tutelare i nostri diritti e accenna al fatto che la curia destina un fondo per aiutare i bisognosi. L'argomento scivola sulla politica e sulla sua incapacità di intercettare le necessità, anche della parte produttiva del paese. Lo stesso Gio racconta la sua esperienza di lavoratore con attività in proprio, costretto, in alcune occasioni, a pagare di tasca sua, per aggirare le lungaggini dell'istituzione.
Poi i commenti cadono sulla qualità del cibo distribuito (immangiabile, secondo alcuni) generando una vivace discussione. Ma qualcuno, in contrappunto all'opinione generale, dichiara di potere consumare prodotti da forno, cannoli, tagliatelle all'uovo, gnocchi... e persino delle chiacchiere in anticipo sul carnevale! Ciò che emerge è che chi non ha le disponibilità economiche ha un sovrapprezzo di pena e deve rassegnarsi a mangiare ciò che passa il convento. Gio racconta di nutrirsi a base di latte e yogurt.
La preoccupazione e l'angoscia dipendono però anche dal fatto “che si è tra un processo e l'altro” e dalla mancanza di rispetto tra gli stessi occupanti la cella (concellini). E' a questo punto che Zero mette sul tavolo la questione dell'armonia della cella, che può essere realizzata solo con il seguire le regole in una comunità che non ha rapporti di parentela o di amicizia e deve coabitare in uno spazio ristretto. I rapporti sono difficili quando si interagisce con persone “maleducate, furbe, ingannevoli”, osserva. Giorgio che è rimasto in ascolto commenta”Bisogna cercare il lato buffo” Il tema del rispetto è cruciale.
Gio accenna al mussulmano che prega a certe ore e gli fa eco Vince. Ognuno deve fare la sua parte. Tenere pulita la cella e la persona, tagliarsi le unghie, non svegliarsi di notte per scrivere. Zero osserva che dove si dorme la lampadina si svita, perché non c'è pulsante e si usa una bottiglia tagliata per svitarla.
Poi l'argomento scivola sui nomi buffi e Giorgio ne fornisce una sfilza, al gioco si uniscono altri detenuti: Rosa Sederino, Maria Troia, un vicino di casa di nome Bocchini, un medico che si chiama Mortale, un pilota di cognome Disgrazia e un paziente che si chiamava Maiale. Giorgio con una svista rammenta di averlo salutato con un cordialissimo “Oh … signor Porcello!”, subito corretto dall'interessato: “Maiale, dottore, maiale!”.
Il clima scherzoso dà lo spazio per una lettura di un brano del romanzo di Giorgio in cui si parla di un parroco di un paesino di montagna, certo don Gaudioso. Trasferito a Craveggia, non rimane insensibile alle grazie di Margherita, la figlia della sua Perpetua. Il parroco, cultore del “Carpe diem” oraziano, coniuga la fede con la disponibilità a godere dei piaceri che la vita offre ai mortali. Giorgio, a questo proposito, confida di essersi sempre appassionato al Faust di Goethe e annota maliziosamente che il suo personaggio porta il nome di Margherita. Nelle sue parole affiora il tema del “Fermati attimo, sei bello” e della caducità delle cose che spinge a apprezzare anche le piccole gioie.
L'intermezzo leggero e le riflessioni che ne seguono non riescono però a distogliere l'uditorio dal problema della solidarietà. E' difficile in un contesto come quello del carcere trovare la voglia di ridere. Anche se ci sono momenti in cui si trova il modo di scherzare, come quando si gioca a carte e si scambiano delle battute.
Poi è sempre Gio che parla di persone che soffrono molto di più, come gli stranieri che non conoscono la lingua e hanno bisogno di tutto, ma a una prova di amicizia si sciolgono e si commuovono (accenna a un ex tossico e dice: “Dietro la sua maschera, ha un cuore come un altro”. Si chiede cosa si può fare per aiutarli e Giorgio prontamente gli risponde: “L'immedesimazione e frammenti di autobiografia, frammenti, precisa, non valanghe di parole!”.
A conclusione, offre anche lui un proprio frammento di autobiografia: “L'altra notte ho fatto un sogno”, racconta, “ho sognato il mio figlio maggiore che non vedo da 10 anni, lui mi ha guardato, i suoi occhi si arrossavano, ci siamo abbracciati!. Penso proprio che andrò a trovarlo”.
Infine Gio racconta della rottura con il fratello per delle parole malintese. Lascia intendere quanto l'orgoglio del fratello abbia a lungo allontanato i rapporti. Si sono riconciliati in occasione della nascita della figlia di Gio. Ci sono parole che separano e alimentano il rancore, e è necessario trovare il coraggio di fare il primo passo.
Su queste considerazioni il gruppo si separa perché è ampiamente trascorso il tempo dell'incontro e l'agente è comparso per ricordarlo.
* I nomi dei detenuti sono di fantasia
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