Incontro del 20 gennaio 2013 Milano Casa circondariale San Vittore.
Quando si pensa alla propria vita si dice sempre la verità.
Leandro Gennari, Iginia Busisi Scaglia, Azalen Tomaselli, Giorgio Cesati Cassin e Simon Pietro De Domenico con le persone detenute.
Iginia porta l'argomento della quantità di vocaboli che compongono la nostra lingua, chi ne usa 700 e chi 1000 lasciando intuire il seguito del suo ragionamento. Giorgio chiama in causa le sinapsi, che si attivano quando ci si cimenta in cose nuove. Gio sostiene che leggere rende partecipi di vite e offre l'opportunità di estraniarsi.
E' Leandro però che assegna alla lettura un compito introspettivo e avverte che quando uno pensa alla propria vita dice sempre la verità e non è colpevolezza cercare di difendersi. “Scrivere è un atto di sincerità, una specie di confessione a se stessi, uno non può mentire a se stesso...anche se non è un letterato fa trapelare la propria vita vera.” Esorta quindi i partecipanti a scrivere la propria storia e a leggerla come un romanzo per scandagliare dove c'è stato un torto, dove una difesa, dove l'autoaccusa, perché – sottolinea - è un atto liberatorio...
Un partecipante commenta: “Sono nato, morto nato e sto proseguendo” alludendo alla sua autobiografia. “L'ho iniziata sei anni fa, ci sono cose che lasci, perdi, quelle che ti hanno condannato a agire in un certo modo; quando scrivi sei sereno con te stesso, ma nel mio caso è stata una sofferenza.”
Leandro aggiunge: ”E' come guardare un film." Il partecipante accenna al dolore per non avere avuto un figlio, poi ammette: ”Potrebbe essere uno strumento per uscire dall'alcol, il manuale di entrata e di uscita.” Giorgio, rimasto in ascolto, confida: “Per me mio padre era una verità eterna, per tutta la vita ho atteso quel fumo dagli occhi (cita il suo romanzo, intitolato per l'appunto Il fumo dagli occhi), fino a quando non ho capito alcune verità che mi ero nascosto e che scrivendo sono affiorate."
Gli fa eco Leandro che dice: ”Rimango dell'idea che se uno si trova a dovere raccontare la propria vita, può modificare i termini, i compromessi con se stesso”. “L'importante è raccontarlo”, conferma Giorgio. Gio, rivolgendosi a Leandro dice: “Mentre lei parlava, io sono ritornato indietro, ci vorrebbe un'enciclopedia, ho fatto degli sbagli nell'ignoranza, ha avuto il sopravvento la carne, non riesco più neanche a piangere perché ho un compagno di stanza”.
Leandro parla di un libro, scritto da una ragazza francese che racconta della sua prigionia nei campi di concentramento, arrivata sulla soglia della camera a gas, viene liberata provvidenzialmente dall'arrivo degli americani. Giorgio risponde che è una sua amica con la quale giocava sulla spiaggia, racconta che è rinata da questa terribile esperienza, ma che, nei primi tempi quando passava accanto a delle ciminiere il marito doveva gettarle la giacca addosso per proteggerla dalla vista del fumo. Vengono rievocate molte atrocità e sevizie a carico di minoranze etniche, degli stessi soldati che operavano sotto l'effetto di droghe.
Azalen per allontanare la tristezza indotta da quelle testimonianze, invita Iginia a leggere una sua lirica. La poetessa risponde all'invito raccontando che nell'impeto di una rabbia furente invece di impugnare un'arma, stringe una penna e scrive una poesia, perché la poesia nasce sempre da un momento dato, da una situazione o da un'immagine. Giorgio esalta, dal suo angolo visuale, il ruolo della fantasia, perché permette di camuffare la realtà. Iginia mette in luce soprattutto il potere della poesia di unire gli uomini sotto il segno di un'emozione che accomuna.”Si trasmette un'emozione a un'altra emozione” e prosegue leggendo la poesia Omaggio ai bambini, dedicata ai piccoli che vivono nel deserto dove infuria la guerra.
La lettura di altre due liriche La panchina e Gocce di rimpianto riporta al passato. A quando sul Naviglio non c'era la movida, come racconta la poetessa, e sull'acqua scorrevano le chiatte con su scritto UF, uso officina. Sono quadri scoloriti di una Milano che non c'è più, operosa e brulicante di personaggi, di mestieri e di quartieri che il tempo ha cancellato: come la zona delle lavandaie, dei formaggiai, le vie dei ladri che rubavano il portafoglio all'ignaro malcapitato e la fila delle case di ringhiera con i cessi fuori che costeggiavano le strade più popolari. Un mondo che ha lasciato posto a una città multietnica privata delle sue radici e dell'identità del proprio dialetto, a differenza di altre, soprattutto nel Meridione che hanno tenuto vivo l'uso del vernacolo.
A conclusione dell'incontro, rimane questo volto sfaccettato della scrittura, come è emerso dalle parole e dai commenti di tutti i partecipanti: Scrivere per trovare la verità, per mettere le ali alla fantasia, o, più semplicemente, per dare valore ai ricordi e fede alle memorie del passato di ciascuno? Tenersi privatamente questi testi o leggerli agli altri? La domanda rimane sospesa anche perché l'incontro volge al termine e è arrivato il momento di salutarsi calorosamente, in vista del prossimo incontro.
* I nomi dei detenuti sono di fantasia
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