Incontro del 29 settembre 2014 Milano Casa circondariale San Vittore.
Leandro Gennari con le persone detenute intorno alla consapevolezza dei propri sbagli.
Azalen Tomaselli e Leandro Gennari con le persone detenute.
Un
cielo autunnale copre oggi Milano, Azalen e Leandro varcano il
portone di San Vittore e attendono nell’aula cella l’arrivo dei
partecipanti. L’avvio dell’incontro procede con la lettura del
resoconto, spesso interrotta da rettifiche, che tradiscono
l’interesse da parte di chi ha espresso la propria opinione a non
essere frainteso.
Un partecipante motiva il suo giudizio positivo
sul carcere con una sua personale esperienza (ha trovato all’ufficio
comando persone che hanno compreso la sua sofferenza, dovuta alla
mancanza di colloqui con la figlie e gli hanno consentito di
telefonare).
Leandro Gennari trae spunto dal tema carcere per
chiedere se tra coloro che sono abitanti “di questo ricovero” ci
sia una disponibilità a riconoscere di avere sbagliato e il
proposito di non commettere d’ora in avanti gli stessi errori.
Polemicamente, gli si fa osservare quanto sia inappropriato chiamare
il carcere ricovero, piuttosto bisognerebbe chiamarlo lager, annota
un partecipante.
Leandro Gennari ammette che vi sono ingiustamente
ricoverati in una comunità che obbliga in modo frustrante, ma per
tutti gli altri - ribadisce la domanda: "c’è una consapevolezza di
avere sbagliato?"
Massimiliano risponde: “Per quello che la società
offre, molte persone sono indotte a sbagliare, bisogna provare a
vivere nella strada.”
Roberto replica: ”Stai trovando delle
giustificazioni, ci sono delle alternative, si può ricorrere
all’assistenza sociale”
La controreplica è immediata e
perentoria: “I servizi non danno niente”
Ma Leandro rilancia:
“Mi piacerebbe sapere se tra quelli che sono qui, c’è qualcuno
che dice: «Ho sbagliato»".
Uno dei presenti racconta:
“Portavo una divisa, mi sono trovato nella necessità, dopo avere
seguito un percorso sociale in cui facevo le code alla Caritas, in
piazza Tricolore…”
Giovanni interviene commentando che conosce
bene quel contesto, non sono solo gli stranieri a fare la fila, ci
sono anche molti italiani. L’altro prosegue descrivendo una
situazione che colpisce soprattutto i padri separati, si tratta di un
problema di cui tante persone non si sono accorte e riguarda molti
impiegati che hanno perduto la casa “padri di famiglia lavati e
stirati” che si recano al lavoro dopo una notte passata in
macchina;
poi fa un conto di come viene speso uno stipendio medio:
500 euro alla moglie, 350 per condividere una stanza, poi
l’assicurazione auto, se non si ha nessuno nella vita, si finisce
con il mendicare un pasto. "Le malattie sono aumentate in modo
esponenziale", afferma, per effetto dei problemi sociali.
Leandro
ribadisce: “A parole, la giustizia è uno stimolo a migliorarsi e a
uscire da quello che è stato”. Ma gli si fa notare che spesso la
carcerazione spezza una vita, privando di tutto un individuo, dalla
capacità lavorativa alle relazioni affettive, alle amicizie a tutti
i rapporti interpersonali.
Giovanni racconta la storia di un
professore di educazione artistica scagionato dall’accusa di
pedofilia in cui era incappato per “ingenuità”. Molte critiche
piovono sul professore che non aveva saputo difendersi dalle
effusioni delle sue alunne (baci, carezze, comportamenti fin troppo
espansivi come sedersi sulle ginocchia del docente, forse per affetto
o per strappare un bel voto).
Da parte del gruppo si dichiara
inammissibile uno stile inadeguato al ruolo che si ha nell’esercizio
della propria funzione.
Leandro insiste: “Si può fare un esame di
coscienza, riconoscendo che siamo fragili psicologicamente e di avere
sbagliato”
Qualcuno gli fa eco: “Cosa posso fare? Subire, essere
più umile, tentare di trovare tanto coraggio”
Un partecipante
rimasto a lungo taciturno dichiara: “Non aiuta (il carcere),
peggiora" e racconta della lunga trafila di istituti di pena e della
separazione dolorosa dal fratello. “Ti fa venire più cattiveria”,
commenta.
Le storie sul carcere si accavallano, dal trans che si è
impiccato, al marocchino lasciato senza televisione il quale si è
tolto la vita davanti la guardia.
Poi lo stesso partecipante soggiunge: “Capisco chi
non ha confessato per paura di scontare la pena, ma non, chi mia ha
condannato ingiustamente. La mia natura è che se vengo provocato
divento una belva, sono violento”.
Il tema della violenza suscita
la reazione di un compagno che dichiara “Sono stato accusato di
violenza latente, è un ossimoro", poi parla dei viaggi che è stato
costretto ad affrontare per andare a trovare la figlia.
Nelle sue
parole traspare la fatica di vivere condizioni in cui i diritti sono
calpestati e l’anima è ferita. "Spesso a violare la legge sono
proprio coloro che dovrebbero rappresentarla", conclude, a partire
dalle celle inagibili. Il carcere è invivibile, di notte, quando
risuonano le urla di chi sta male, anche psicologicamente.
Giovanni
dice il codice sancisce di rivolgersi alla persona detenuta con il
lei, alcuni agenti ricorrono perfino al fischio per chiamare i
detenuti, ci sono casi di abusi, di percosse.
Azalen sul finire
dell’incontro legge: Satunad, la città di passaggio, un testo
scritto da una detenuta del femminile, nell’ambito del progetto su
Le città invisibili, che riscuote giudizi positivi.
Roberto
commenta: ”Si capisce che è scritto da una donna, perché parla di
un semaforo dove non si accende mai il verde e questo impedisce di
uscire da questa città immaginaria”.
I saluti e le strette di mano
suggellano come sempre la fine dell’incontro.
* I nomi dei detenuti sono di fantasia
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